«Il vero, lo si fa barando a modo giusto».
Il bastone tra le mani di Céline, il secchio tra quelle di Kafka.
« Vedano, signore e signori, che a questo, non gli resta che un occhio… tutto secco… e la lingua… che è diventata anche quella come cuoio! » Ci picchiava sopra. « Fa vedere la lingua ma non è ripugnante… […] Potete toccarli prima di andare… Rendervi conto da soli… Ma non toccate troppo forte… Vi raccomando… Sono tutto quel che c’è di fragile… »
Le mummie abitavano la grotta. Se la vecchia Henrouille avesse potuto, le avrebbe scollate dal muro e dotate di fili cerati collegati poi alle rispettive crocette di legno, e poi ancora animate per offrire maggior credito al turismo nero che dirigeva e le faceva far soldi. Insomma, era una burattinaia mancata la vecchia Henrouille, ma anche una domatrice senza fiere che schioccava colpi di frusta comunque e non a vuoto bensì sul ventre del cadavere di turno e solo « quando gli restava abbastanza pergamena sopra ».
Nel suo Viaggio al termine della notte Louis-Ferdinand Céline, sotto mentite spoglie, scende giù per una scaletta che gli inganna il passo, verso il « cimitero di calce viva» che ha reso la concia delle pelli per mano della Morte. Egli muove verso le profondità, spinto dal desiderio di respirare l’odore di quei corpi, che vanno sbriciolandosi, e di vederli, trofei stuccati esposti a memoria di chi lo diverrà.
Lui, come tanti, come tutti, come le cimici intossicate dal vetriolo, riaffiora dall’ipogeo dopo essersi lasciato stordire dall’odore di quella polvere che il tempo, durato più di cinquecento anni, ha trattato col pestello per renderle una grana sottile.
Di contro il suo antesignano, Odisseo, non scende nell’Ade ma soltanto si approssima al suo ingresso per lasciarvi colare il sangue nero delle bestie sacrificali, mentre attende che i morti si affollino all’uscita. La bocca di questa Oltretomba, laccata di un rosso che va perdendo i connotati di colore vivido chiuso nei cerchi delle pozze che riempie, cerca il dialogo; la bocca dell’Oltretomba di Céline è invece secca e muta, « una specie di buco trincerato » che chiude sulle sue peregrinazioni. E così, sulle ultime pagine del romanzo, in un parlare solitario che percuote, prendono corpo le considerazioni che seguono: « È tutto quello che hai conservato della vita. Questo piccolo rimpianto atroce, il resto lo hai più o meno vomitato lungo la strada, con molti sforzi e pena. Non sei altro che un lampione di ricordi all’angolo di una strada dove non passa già quasi più nessuno ».
Céline appare come Il cavaliere del secchio, breve ed enigmatico racconto di Franz Kafka a cui Italo Calvino dedica una lettura significativa in Leggerezza, da Lezioni americane. Le immagini dell’errare e del dondolio ritmico del secchio che non trova carbone di cui riempirsi e con cui sfamare il freddo, accompagnano il cavaliere fin nel regno delle Montagne di Ghiaccio, confermando quanto in realtà il secchio debba restar vuoto per salire fin là sopra.
È così che Louis-Ferdinand Céline morirà solo ma forte del consacrarsi « ultimo musicista del romanzo».
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