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Il dedalo delle parole

431-l-acces-au-savoir«L’universo (che altri chiamano la Biblioteca) si compone di un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, circondati da ringhiere bassissime. Da qualunque esagono, si vedono i piani inferiori e superiori: interminabilmente».

Le scarpe di Jorge Luis Borges battono i tacchi sugli addentellati della scala a chiocciola di turno, come fanno le ore di un vecchio orologio che, pur senza lancette, dall’interno continua ad emettere suoni di piccole ferraglie, in una sorta d’ostinata obbedienza al suo meccanismo. Che vadano in salita o in discesa non v’è differenza perché ad attenderle non vi sono né inferi né cielo, consunte si portano verso la perdita di orientamento quanto Le scarpette rosse di Karen, piegate al volere dell’azione misterica e beffarda delle Finzioni. Si muovono entro gli spazi de La biblioteca di Babele, alla ricerca affannosa del fantomatico «libro totale», del libro che racchiude in sé il suo controlibro perché sarebbe altrimenti ritenuto manchevole, l’unico a poter contenere «tutte le combinazioni possibili della ventina di simboli ortografici […], cioè tutto ciò che è dato esprimere: in tutte le lingue», nella massima estensione del gioco dell’azzardo. Ma questo libro si lascia sfuggire quanto e come quelli dell’Esagono Cremisi, libri di piccola foggia carichi di magia, distanti da quelli ordinari. A complicare la faccenda, le geometrie che tracciano i confini di questo luogo-non-luogo, seppur orientate a contenere e direzionare coloro che vi transitano, volutamente stordiscono la vista, e il cuore, e il passo col loro incessante moltiplicarsi e sovrapporsi, mentre lo specchio posto nell’atrio, con fare illusorio, compie il suo mandato e «raddoppia fedelmente le apparenze» offrendo la mela a coloro che vogliono mangiarla. Dunque, l’avventuriero delle lettere preferirebbe forse farsi blatta? Per assumerne la robustezza delle zampe? Per prenderne la velocità nell’incedere e l’acutezza nel perlustrare? Per meglio perdersi negli anfratti e negli slarghi?

Nel 1976, a distanza di trent’anni circa dalla pubblicazione di Finzioni, Borges diede alle stampe il Libro di sogni, avvicinandosi all’idea del «libro totale» dato che il pasto di cui esso si era nutrito era stato quello offerto in dono alle notti dei cercatori di prodigio. Forse era riuscito a penetrare il suo personalissimo Esagono Cremisi, perché altri al suo pari trovarono il loro.

Benjamin ne è un esempio. Lui, come Calvino, ha sostato lungamente in uno degli infiniti esagoni, e quel che ha scritto in un appunto ne è la prova: «Pernottare in un pensiero. Se ho passato la notte al suo interno, so qualcosa di esso che nemmeno il suo autore presagiva». Per lui accostarsi ad un’opera letteraria significa infatti assumerne il contenuto reale, lo strato superiore, ma soprattutto arrivare a toccarne il contenuto di verità, lo strato profondo di cui né il poeta né la critica del tempo può essere lucido interprete. La sua speculazione ha il potere di passare attraverso le varie forme assunte dalla scrittura che sceglie come campo d’indagine. Si pensi ai saggi su Baudelaire, su Goethe, su Leskov, su Kafka, inseriti nella raccolta più ampia Angelus Novus. Alle loro parole, quali simboli cifrati propri di un’epoca trascorsa, dedica il suo sguardo attento e mai compromesso, lontano da ogni soggettivismo, alla ricerca di quel che volevano intendere al di là della loro forma esteriore e delle combinazioni adottate. Benjamin è il cercatore di allegorie, indagatore del loro inconscio che si svela proprio mentre si nasconde, nel gioco prediletto del camuffamento. Così, mentre le tessere dei suoi pensieri e delle sue deduzioni vanno accumulandosi, procede a sistemarle nella forma del trattato che si spinge fino ad assumere l’incarnato dell’arabesco. Sul lettore esso agisce la sua malia, che non aspira se non al rapimento estatico reso dall’ingannevolezza del dedalo.

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