News

due o tre cose che non sapevo di “bata” e dei cecoslovacchi in genere

di paolo nori

Tomàś Bata, il fondatore del calzaturificio Bata, nel 1904 va in America per imparare a fare la scarpe in modo industriale. Ha con sé «un elenco di seicentottantotto domande alle quali cerca risposta». In America, Bata «si imbatte per la prima volta nel concetto di orologio da polso, e si rende conto che gli americani misurano il tempo in minuti, che sono la principale unità di misura della produzione». Tornato a Zlín, la cittadina cecoslovacca dove ha sede il suo calzaturificio, «dipinge sul muro della sua officina un’enorme scritta: UN GIORNO HA 86.400 SECONDI. La gente legge e dice che al figlio del vecchio Bata ha dato di volta il cervello».
Qualche settimana dopo Bata scrive sul muro del gommificio, «in lettere della grandezza di un uomo: GLI UOMINI PER PENSARE – LE MACCHINE PER SFACCHINARE». Dopo di che «recinta la fabbrica con un muro di mattoni. Sul muro fa scrivere: NON DOBBIAMO AVER PAURA DEGLI ALTRI, DOBBIAMO AVERE PAURA DI NOI STESSI».
Qualche anno più tardi, nel 1926, quando Bata è diventato sindaco di Zlín e la sua azienda è la più grande della Cecoslovacchia e la Cecoslovacchia è la più grande esportatrice di calzature del mondo, sul muro del suo feltrificio Bata avrà fatto scrivere, sempre in quei caratteri giganti: NON LEGGETE ROMANZI RUSSI. E, sul muro del gommificio: I ROMANZI RUSSI UCCIDONO LA GIOIA DI VIVERE.
Passato qualche anno, nel 1933, il fratello di Tomàś, Jan, che gli è subentrato alla guida della ditta, sarà accusato dai nazisti di essere ebreo, dai francesi di essere tedesco, dagli italiani di attaccare Mussolini e dai polacchi di aiutate i sovietici.

Lo stesso Jan, nel 1938, «all’indomani dell’annessione dell’Austria al terzo Reich, avendo un vago presentimento del destino riservato dalla sorte alla Cecoslovacchia», fa pubblicare su Zlín, quotidiano di sua proprietà, un articolo che parla di un’idea che gli è venuta al mattino appena sveglio: trapiantare la Cecoslovacchia in Sud America.
«Il Brasile, – c’è scritto in quell’articolo, – che occupa una superficie grande quanto l’intera Europa, ha in tutto 44 milioni di cittadini. L’Europa ne conta 480 milioni. Per quale ragione impuntarsi a cercare un terreno di sviluppo in quest’Europa già fin troppo affollata? Perché non laggiù invece? Ci conviene sloggiare. L’ultima guerra è costata al mondo otto bilioni di corone cecoslovacche. Il trasferimento di 10 milioni di persone in Sud America verrebbe a costare soltanto 14 miliardi di corone. Peraltro con soli 140 miliardi i nuovi arrivati potrebbero mettere su delle gran belle fattorie. C’è forse un buon motivo per fare una cosa tanto stupida, e rovinosa per l’umanità, qual è la guerra? Anche la Patagonia, nel Sud dell’Argentina, farebbe perfettamente al caso nostro».

L’idea di guardare al mondo come proprio orizzonte è, del resto, famigliare, ai Bata; nel 1932 due incaricati di Tomàś erano partiti da Zlín per verificare le possibilità del mercato nordafricano. Avevano mandato in sede due telegrammi. Il primo diceva: «Qui nessuno porta scarpe. Non c’è mercato. Rientro a casa». Il secondo: «Tutti girano scalzi. Mercato dal potenziale enorme. Spedite scarpe al più presto».
Quella dei Bata è la prima delle storie raccontate dal polacco Mariusz Szczygieł in Gottland, ora pubblicato in Italia da nottetempo (traduzione di Marzena Borejczuk, 315 pagine, 19 euro), una specie di piccola storia della Cecoslovacchia fatta tutta di esempi, come per esempio la spennatrice di oche Kvítková che passò alla storia «per avere spennato settantadue oche in due ore». O la storia del ministro dell’informazione Kopecký che dichiarava che l’Elbrus «era la vetta più alta d’Europa», e che quelli che dicevano che invece era il Monte Bianco lo facevano perché accecati da un «anacronistico retaggio del cosmopolitismo reazionario».

O la storia del più grande monumento a Stalin del mondo, inaugurato a Praga nel 1955 per testimoniare l’eterna amicizia tra il popolo cecoslovacco e l’Unione Sovietica. O la storia di come, otto anni dopo, quel monumento viene «demolito, ma con dignità». O la storia della nipote di Kafka, che abita a Praga e non ha mai concesso un’intervista in vita sua, e se qualcuno la trova al telefono fa finta di non essere lei. O la storia di un contadino dei dintorni di Slane che all’inizio del 1939 alla giornalista Milena Jesenkà, che gli chiedeva se non aveva paura, rispondeva: «E di cosa mai dovrei avere paura? Oltretutto, signora, si muore una volta sola. E se muori un po’ prima, resti semplicemente morto un po’ più a lungo, ecco tutto».

Related

No Comments

Leave a Reply